Racconti d’uscite: Una giornata nel Bosco bianco

Dalla finestrella della vecchia porta in legno del terrazzo filtra una luce fioca, pallida e la riconosco, è quella del cielo che si prepara ad imbiancare: “e sarebbe una manna”, penso, non fiocca oramai da settimane dopo la bella imbiancata di inizio Dicembre che aveva illuso sulla possibilità di vedere finalmente un Inverno degno di questo nome, salvo poi infrangere le speranze conto muri di Fhoen da oltre 20 gradi di picco con primavera ed autunno che si sono alternati sino a pochi giorni fa, ma conta il qui ed ora ed il cielo unanimemente grigio è promettente, certo questi giorni di neve profilantesi non risolveranno la pessima situazione dell’acqua su questo versante alpino, ma è comunque qualcosa.

Mi stiracchio nel tepore del letto, a dire il vero la prospettiva di uscire da quel bozzolo accogliente non mi solletica affatto, viepiù con l’ottica d’andar ad arrancare sotto uno zaino pesante su per boschi, ma mi sto infiacchendo e devo riprendere ritmo e fiato, oltretutto so che una volta abbandonate le mura di casa ed il vicolo del paese sarò preso e confortato dall’abbraccio del bosco che si prepara a ricevere la sua candida coperta.

Faccio mente locale, lo zaino è già parzialmente pronto, devo decidere se inserire o meno una coperta, cosa che puntualmente accade, sia perché la promessa di stare al calduccio sotto una bella coltre durante il bivacco mi alletta non poco, sia perché voglio continuare con la terapia d’urto per la mia gamba, zaini pesi e dislivello, nessun compromesso.

L’idea primigenia è quella recarsi ad un alpeggio sopra il paese, montare il telo a tenda, pranzare, leggere un po’ e scendere verso casa per tempo, a rassettare un minimo in vista della visita dei soci di scalata, non capita sovente che qualcuno mi venga a far visita, non faccio particolare vita mondana, ultimamente sempre meno, e non essendo un maestro d’ordine c’è la necessità di recuperare almeno due sedute, spazzare via i trucioli di legna e cose del genere, non che chi arriverà possa curarsi di cose come queste, ma dev’essere un residuo di attenzione alle apparenze tutta borghese che mi porto dietro, come molti, nonostante le scelte d’esistenza mi abbiano portato assai distante da quei porti.

Zaino pronto, il letto ed il suo tepore sono già dimenticati, ora sono focalizzato sul mio giro, mi vesto a strati, forse troppi, indossate le ghette e pianificato il giro, con un eventuale ripiego lungo il tragitto, mi metto a sgranocchiare qualcosa; sbircio fuori dalla finestrella della cucina, ancora niente neve, pazienza, le previsioni non mutano da giorni e questo mi da la legittimità di sperare di poter passare una giornata nevosa.

E’ il momento: inforco lo zaino, impugno il bastone ed esco sul pianerottolo e sorpresa, piove, maledizione! “No, con la pioggia no”, mi dico, non amo uscire di mia volontà quando piove, che giove pluvio mi sorprenda in mezzo al bosco va bene, ma andargli in contro scientemente no, non è il mio tipo e non è una cosa che apprezzo e che anelo: “che debba rimandare? D’altro canto anche domani dovrebbe nevicare…”, penso, scarico quindi lo zaino sul divanetto inanzi alla stufa e decido di spingermi sino al parcheggio della borgata per saggiare l’intensità di quella che sembra una pioggerella sottile ed ostinata.

Non avevo valutato bene, la pioggia è si sottile, ma quasi ghiacciata, ogni tanto una goccia più compatta percuote il parka suonando lo spesso cotone come un tamburello, la neve arriverà e mi convinco che salendo un centinaio di metri potrei già incontrarla, giro dunque i tacchi verso casa, in un attimo lo zaino riprende la sua naturale posizione di spacca deltoidi ed in men che non si dica mi avvio verso la strada silvo-pastorale.

Dopo pochi passi come previsto la consistenza dell’acqua cambia, ora piove con gocce più pesanti, dense seppur sempre piccole, non è invero piacevole marciare sotto quest’acqua ancora indecisa se continuare a correr via veloce o farsi neve e prendersi il suo tempo prima del suo bacio con il morbido sottobosco, ma procedo comunque, il passo è buono nonostante il carapace che mi son caricato, solo il fiato stenta a prendere il giusto ritmo: “Chissà…”, penso, “credo che oggi l’alpeggio non lo vedrò, ma ci provo”, conosco i segnali del mio corpo e questa sembra essere una di quelle giornate faticose, dove il fiato non si rompe e dove la voluttà del bosco si ottenebra nell’affanno senza speranza della salita.

Mentre rimugino non mi accorgo che il cielo si è finalmente deciso a regalare al bosco il dovuto obolo nevoso, mi ridesta un fiocco che, appiccicatosi ad una delle lenti degli occhiali, si scioglie placidamente sulla superficie vitrea, scivolando e consumandosi lentamente, sino ad esaurirsi, regalandomi un momento di psichedelia boschiva deformando le figure sfumandone altresì i bordi; ci siamo, almeno per il tempo, riguardo il fiato invece…mi fermo sovente sia per respirare, sia per ammirare il bosco lentamente perdere colore ed acquistare volume, come se stesse gonfiando i polmoni dopo una secca apnea di settimane, le forme si arrotondano, secchi e tristi stecchi, una volta rigogliose ombrellifere, acquistano ora la bizzarra forma di esili bastoni da passeggio, con un candido e freddo pomolo, infissi disordinatamente nel morbido hummus del sottobosco, o sono funghi art decò? Le visioni del fiocco di neve sono ancora potenti. Un ciuffo d’aglio delle vigne mi riporta sul sentiero e dopo le divagazioni mistico-artistiche ora sono nuovamente preso nell’osservazione compulsiva del circostante, noto alberi ed arbusti gemmati, tratti in inganno dalle miti temperature di questa triste stagione cosa penseranno ora che il generale inverno ha rotto l’assedio ed è penetrato in questa infinita primavera? “Quanti di loro incontrerò nuovamente dopo il disgelo, e quanti altri, schiantati, finiranno nelle legnaie del paese? La disgrazia di qualcuno, pare essere vero, è l’oro di qualcun’altro”, penso, mentre letteralmente arranco dopo ogni passo.

Ora nevica seriamente e sia la forma di giornata, sia la necessità di allestire il bivacco, mi fanno optare per la soluzione di ripiego dalla quale non sono ora troppo lontano, mentre l’alpeggio dista ancora quasi un’ora e con questa neve il rischio di dover, una volta giunto in zona, passare parecchio tempo sotto la nevicata a preparare l’area di bivacco schiacciando la coltre nevosa in deposito prima di tirare su il riparo non mi alletta certo, potrei entrare nel fitto del bosco e trovare ostello nei pressi di qualche provvidenziale conifera, ma oggi vorrei provare una certa configurazione del mio telo, ho quindi abbisogno di campo aperto e di terreno quanto più pianeggiante possibile e quindi il ripiego è ora prima scelta.

Abbandono il sentiero e mi inoltro fra vecchi camminamenti oramai decrepiti ed a tratti franati, ma che nella loro ostinata sopravvivenza si ergono a muti testimoni della tenacia e maestria dei loro antichi costruttori, che senza malta hanno edificato muri e secco, bastioni di contenimento, lastricati che ora sono strade maestre per cervi, cinghiali, stambecchi, camosci, ma che un tempo erano vie della fatica per persone con scarpe dalla suola in legno ed ancor prima per piedi callosi e nudi, i passi che sto calpestando incerto sotto il peso fisico dello zaino e quello psicologico della caviglia che ancora non gira alla perfezione dopo l’ultimo infortunio potrebbero risalire a cinquant’anni come a mille anni fa, se non di più, queste zone dell’alpe sono abitate da sempre e le mani che hanno posto le pietre che sto calcando avrebbero potuto parlare celto come lingua d’oca piuttosto che un idioma oramai sconosciuto alle nostre orecchie, il paesaggio stesso, plasmato, potrebbe essere lingua; mentre mi sto nuovamente perdendo nelle mie divagazioni metafisiche vengo ridestato da un fischio, subito l’occhio esplora automaticamente e velocemente il circostante ed in pochi secondi trova quel che cerca, eccola, una famiglia di stambecchi, a pochi metri da me, sono quattro, due cuccioli piuttosto piccoli, una femmina ed un maschio, quest’ultimo in particolare mi colpisce, è giovane, dalla stazza contenuta ma assai compatta, la figura è a suo modo maestosa, nel suo essere compresso pare pronto ad un esplosione di vigoria, allo scatto elastico e deflagrante e tutto ciò mi lascia ammirato, la femmina e la sua prole si sono allontanati e ne ho perso la vista, ma lui rimane li, innanzi a me, che da minuti sono immobile nell’osservazione, mi guarda saltuariamente, con noncuranza, deputando però alla vigilanza un orecchio irrevocabilmente puntato verso di me, usma l’aria, si guarda attorno, pare non aver voglia di raggiungere i suoi famigli, io sto diventando un monumento di neve alla sua poderosità, decido di muovermi lentamente nel totale disinteresse del mio interlocutore, esploro quindi l’area in cerca di un punto sufficientemente piano per allestire il campo ma pare proprio che l’unico posto papabile sia un piccolo anfratto, a dire il vero piuttosto inclinato, ai piedi di alcune quercette, nei pressi del mio affascinante ospite al quale mi avvicino con circospezione per non spaventarlo, anche se invero pare che il nostro abbia voglia di qualsiasi cosa fuorché spaventarsi, tanto meglio.

Individuo l’area proprio mentre il bel maschio, dopo essersi mostrato in tutta la sua eleganza di profilo, con le corna ancora piuttosto corte, il possente garrese e il posteriore con le cosce corte e muscolose, uno spettacolo gratuito per un solo spettatore, in una cornice algida e fuori dal tempo, si avvia blandamente a ricongiungersi al resto del suo piccolo branco, in che anno siamo? Ora so solo che è la prima uscita di un nuovo anno, quale che sia, poi, chissà.

Depongo lo zaino fra due piccole querce, estraggo il telo e comincio l’allestimento, non ho mai usato questa particolare conformazione e ci metto un attimo a tirar su la struttura, oramai prendo neve da un po’ e non so quanto ancora il parka in cotone impermeabilizzato reggerà il doppio assedio della neve fuori, e del calore corporeo proveniente da dentro, meglio darsi una mossa.

Allestita finalmente la struttura metto dentro lo zaino e comincio a preparare gli spazi interni, un lato per le masserizie, un alto per me, al centro il bastone che sorregge la struttura a piramide.

Il terreno è davvero inclinato, il che rende le operazioni disagevoli nell’angusto spazio del riparo, apro il poncho, vi pongo sopra lo stuoino in cfc ed eccezionalmente un materassino gonfiabile, scivola tutto un po’ verso il basso ma insomma, mi arrangio.

Fuori la neve rinforza ed ora anche il vento si fa sentire, a momenti, ma con sufficiente decisione per abbassare la temperatura percepita.

Estraggo il necessario per il pranzo dallo zaino, non prima della coperta, la staticità ora richiede un surplus di isolamento, il coltrone che ho portato è forse esagerato per un bivacco diurno, ma volevo testarne la portabilità.

Gavetta, pentolino-coperchio, fornelletto montabile a legna, olio, sale, un mix di legumi e verdure, acqua, c’è tutto, manca solo il combustibile, esco a recuperarne sotto una piccola bufera.

In primis recupero dei piccoli ramoscelli secchi da una pianta in piedi, poi mi reco verso una caduta per tagliare qualche ramo più consistente fra quelli più lontani dal suolo, tutto è coperto da un sottile strato di vetrato, segno di umidità notturna e di parecchio successivo lavoro per rendere il raccolto utilizzabile.

La sega del mio coltellino pieghevole fa egregiamente il suo lavoro, ed anche se uscire dal riparo senza guanti non si è dimostrata scelta saggia, me la cavo velocemente ed in un amen sono nuovamente al riparo del mio fido telo dove comincia la parte noiosa della giornata: eliminare la parte umida dalla legna e renderla combustibile. Sempre con l’ausilio del pieghevole -oggi il fido Mora ha riposato nella tasca pettorale del parka- scorteccio i rami, anche quelli sottili, sino ad arrivare alla parte asciutta del materiale ed è quindi tutto uno scorteccia, appoggia alla guancia ed alle labbra, scorteccia ancora, fatto.

In condizioni avverse il curare al meglio ogni aspetto del nostro futuro fuoco ci farà risparmiare tempo, energie e morale, non c’è nulla di peggio a livello psicologico di un focolare che brucia a stento o che dobbiamo dannare ad accendere, meglio quindi perdere qualche tempo in più a sistemare il nostro combustibile piuttosto che arrovellarsi in seguito con legna che frigge e che non prende.

La legna c’è ed è processata, monto quindi il fornelletto che pongo all’ingresso del bivacco, lo sposterò fuori appena acceso; dallo zaino estraggo la scatolina delle esche dalla quale asporto tre quadrotti di corteccia di Betulla, ne riduco uno a striscioline che sistemo assieme alla legna nel fornelletto tenendone una porzione come accenditore.

Il fuoco prende subito, appena la fiamma passa da arancione ad un giallo più brillante pongo appena fuori dal rifugio il fornello, il vento alimenta il fuoco, la neve sfrigola sull’acciaio della stufetta; verso un po’ di legumi nella gavetta della borraccia, aggiusto di acqua e sale, copro e metto sul fuoco, ora non resta che attendere e vigilare la fiamma che non sembra aver particolari problemi a respingere l’attacco della nevicata.

Aspetto, con l’innegabile comfort della coperta sulle gambe, ogni tanto la neve scivola dal telo con un rumore d’onde e il ticchettare dei nuovi fiocchi sulla superficie di nylon in concorso con il silenzio d’ovatta che solo la neve riesce a donare crea una tiritera mistica, è così rilassante che penso, dopo mangiato, di farmi un sonnellino, tempo permettendo.

Devo intervenire sul fuoco che, approfittando del mio lassismo, prova a spegnersi, ma qualche nuovo legnetto ed una striscina di Betulla risolvono presto la questione. Controllo nella gavetta, ci siamo quasi, ci siamo.

Guardo l’ora, per il sonnellino ci sarà altro tempo, devo rientrare, purtroppo.

Rifaccio velocemente lo zaino, mi sistemo ed esco, ora nevica con un vento moderato, l’ideale per ripiegare poncho e telo; lo stoccaggio del primo fila via facilmente, meno per quanto riguarda il telo, le mani sono fredde e rispondono poco, il vento è una variabile non da poco, mi risolvo quindi a ficcare il telo arrotolato alla meglio nello zaino, di riporlo nella sua sacca non se ne parla, poco male.

Mi avvio blandamente fissando il quadrato di terreno dove c’era il rifugio, una chiazza regolare marrone in mezzo ad un mare bianco, la neve stride sotto gli scarponi, cammino con calma, godendomi il paesaggio ed accarezzando l’idea di prendermi ancora del tempo per girellare senza meta riempiendomi gli occhi di quell’effimera varietà di forme che bosco e neve assieme concorrono a creare, ma il tempo stringe viepiù e devo risolvermi. Il rientro è comunque piacevole, se si eccettua un maledetto zoccolo che ogni pochi passi si forma ostinatamente sotto lo scarpone di destra e che devo staccare a bastonate sovente.

Giunto sulla soglia di casa espleto l’usato rituale di mondare me e lo zaino dalla neve prima di varcare l’uscio, aiutato in questo dalla spazzola per gli scarponi che ogni casa, in montagna, ha appena fuori dalla porta; mondatomi entro, svuoto lo zaino, che ha patito un po’, come del resto il parka e le ghette dell’esposizione continuata alla nevicata ed appendo tutto diligentemente attorno alla stufa, mentre poncho e telo sono posti a sgocciolare nel bagnetto. Nonostante la brevità del giro sento gli arti inferiori bruciare un pochino, di quel bruciore salutare che annuncia che la giornata è stata comunque proficua, oltre che per lo spirito, anche per il corpo. Rassetto.

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