I boschi d’autunno hanno qualcosa di speciale, l’odore del sottobosco umido, il passo ovattato su strati e strati di foglie multicolore, il picchiettare delle foglie che cadono e la nebbiolina che imperla la barba, gli animali affaccendati in cielo, sopra e fra gli alberi, intenti a prepararsi all’inverno.
Certe volte -sempre più spesso- mi sembra proprio che fra noi animali umani “civilizzati” e gli animali non umani selvatici tutto lo scarto sia loro favorevole, immersi in una vita non mediata, priva di ipocrisie, terribile e violenta ma degna del miglior libro che potremo mai leggere.
Quando osservo in silenzio un panorama ed in esso l’agile scartare nervoso di un capriolo o l’impossibile inerpicarsi di uno stambecco davvero riesco a capire le parole che Amleto rivolge ad Orazio: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”.
Eppure nonostante tutti i tentativi che la nostra specie ha fatto per dimenticarsi d’essere parte e non padrona dell’esistente in certi luoghi l’autunno e l’inverno ci rendono un po più simili fra noi, animali umani e non umani nello sforzo di affrontare con più tranquillità le stagioni del grande freddo, chi ammucchiando frutta secca in una cavità di un albero, chi tagliando e accatastando legna.
Per questo -e per altro- ho scelto di vivere la montagna e di farlo con passo leggero, meno invasivo possibile, per quanto le mie conoscenze, paure, abilità lo permettano, per poter godere del profumo della resina e dello stupore di un incontro fra i larici.
Qui non c’è bisogno d’altro di quel che c’è.