Racconti di uscite: Ma chi me lo fa fare?

La luce filtrante dalla porta del balconcino della camera lascia presagire che le previsioni del tempo abbiano colpito il segno, mi stiracchio dunque, e le braccia improvidamente sottratte al calore delle coperte mi avvertono che la temperatura non dev’essere poi così alta, d’altra parte la stufa è spenta oramai da almeno sei o sette ore, qui la notte è riscaldata dalle calorie e dai coltroni, niente riscaldamento centralizzato, solo legna.

Mentre mi vesto non ho ancora chiaro cosa fare della giornata, mi aspettano certo almeno un paio di incombenze, espletabili velocemente, il resto della giornata è un foglio tanto bianco quanto la coltre nivea che da qualche giorno ricopre il paese ed i boschi circostanti; vorrei fare un giro rilassante, magari un pranzetto boschivo, nulla di più, la mattinata mi si è presentata assieme ad un discreto dolore al piede sinistro, sempre lui, a ricordarmi che le scelte si pagano e certe volte con gli interessi.

Esco di casa ed il fresco mi accarezza la faccia pungendo lievemente, l’aria è secca, il cielo limpido, il Rocciamelone una cartolina il cui scorcio dev’essere cambiato ben poco nei secoli e da qui, dove sono ritto ora, chissà in quanti e quante avranno assaporato con gli occhi il medesimo spettacolo e chissà cosa ne avranno pensato, se avranno provato stupore, fastidio, soggezione -d’altra parte era pur sempre una montagna sacra- o cos’altro innanzi all’aguzza imponenza del Roc Maol.

Perso nei pensieri più disparati, con un certo nodo alla gola difficile da dirimere, dopo aver espletato gli impegni prefissatomi, mi avvio blandamente su per la silvo-pastorale che diparte all’inizio della borgata; la neve è ancora crostosa, dopotutto pur volgendo il mattino verso l’ora di pranzo la temperatura è ancora sotto lo zero, seppur di poco.

Tutto scricchiola sotto gli scarponi mentre sul manto appaiono le prime impronte di animali umani e non umani fra le quali spiccano, sempre affascinanti, quelle che sembrano essere di un Lupo,

non sono così certo a dire il vero, ma sono piuttosto grandi e le temperature rigide di questi giorni, non penso che siano li da più di un paio, non dovrebbero aver incentivato la fusione della neve allargandone la misura. Procedo. Comincio a sentire la necessità di abbandonare uno strato di vestiario.

Poco oltre l’entrata sotto la volta dei castagni incontro una paesana che mi informa di una predazione avvenuta il giorno prima poco distante, mi incuriosisco e prendo la via seguendo le sue indicazioni; dopo pochi minuti di sentiero intravedo alcune gocce di sangue e dei segni di trascinamento, impronte varie di spazzini come volpi e tassi, niente lupo però. Seguendo la traccia ematica giungo all’evidente zona di predazione,

c’è molto sangue, forse il residuo del contenuto dell’intestino ma null’altro, molte impronte di cinghiale, cervo, camoscio, scarponi ma ancora niente lupo, comincio a pensare che sempre di predazione si tratti, ma non di canide ma bensì di homo visto che erano state individuate solo le interiora senza traccia di carcassa. Torno sui miei passi e continuo a salire, ora ho chiara, forse, la direzione da prendere.

Salgo procedendo a strappi, alternando sgambate veloci a soste d’ascolto ed osservazione, respirando a piene nari l’aria frizzante di questo mattino autunnale che sa di primo Inverno, il moto mi mantiene in temperatura, si sta veramente bene.

Imbocco un sentiero sino a pochi anni fa poco conosciuto ed ancora poco battuto, alla volta di un vecchio alpeggio del paese, è piuttosto ripido ma salgo con tranquillità nonostante la neve a tratti ghiacciata ed a tratti marcia, la gamba gira bene ed il piede si è rassegnato a dover fare il suo lavoro, non duole più.

Per ora non ho ancora incontrato animali, né ne ho sentiti, nel bosco a valle intravedo altri segni di predazione, questa, più di altre, nei boschi, è stagione di vita e di morte in un circolo che confonde prede e predatori.

Questo angusto sentiero ha attraversato molte storie legate al paese dove vivo, storie di fatica, lavoro, resistenza e, appunto, vita e morte, anche per l’animale umano; qui risalivano i partigiani per raggiungere gli acquartieramenti nei boschi alti di Clo du Faure e qui si inerpicavano staffette come la giovane Attilia Paolina Ronsil, giustiziata in paese, il 25 Agosto 1944, dalle camicie nere assieme ad altri due paesani.

Comincio ad intravedere il punto dove il sentierino esce dal bosco proseguendo a mezza costa su un pendio roccioso, qui gli alberi sono scarsi, qualche Pino, poi cespugli di Ginepro, Crespino e Rosa canina; il tracciato è esposto a sud ed infatti qui la neve è decisamente meno, ci sono alcuni tratti addirittura senza, il sole scalda piacevolmente e ne approfitto per recuperare qualche vitamina spremendo delle bacche di rosa canina, “cotte” a dovere dalla gelata; poco sotto il cespuglio dal quale sto raccogliendo noto anche un ciuffo di Aglio delle vigne, non mi serve, rimarrà li, fra i suoi sassi, lode alla sua resistenza. Sento rumori in lontananza, so di essere in prossimità di una zona battuta da stambecchi e camosci, preparo la macchietta fotografica, vorrei eseguire qualche ripresa.

Giusto il tempo di riprendere il cammino che il primo fischio mi avvisa della presenza di uno camoscio, cerco di filmarlo ma il colore mimentico dell’animale mette in crisi il fuoco della macchina, riesco appena a scattare una foto, sfuocata, pochi metri ancora e questa volta i camosci sono due, no tre, quattro, sei, manco a dirlo non riesco a riprendere quasi niente, per un attimo il fuoco è buono ma poi si perde irrimediabilmente, impreco.

Su una roccia ancora coperta di neve individuo delle impronte di uno degli esemplari, evidentemente la vedetta del gruppo.

Il panorama è notevole, le montagne all’inverso sono dominate dai toni del grigio e del bianco con sporadiche screziature di verde scuro e giallo oro mentre io sono immerso in un bagno di luce bianca, a valle vedo il paese ed intravedo il tetto di casa, mentre a monte sono dominato da pietraie e pareti rocciose parzialmente innevate, un larice dorato mi incanta.

Proseguendo incontro una femmina di stambecco ben pasciuta in previsione dell’inverno.

Giungo in fine all’alpeggio che, pur ben esposto ha ancora una discreta copertura nevosa sui suoi prati che ancora resistono al ritorno prepotente del bosco, a questo punto abbandono sentiero e mi inoltro in un bel lariceto, assai suggestivo e che amo molto. Penso che potrei dirigermi ad un paese abbandonato più ad est sapendo bene che il percorso potrebbe essere reso accidentato o inagibile dalla neve, sentieri non ce ne sono più se non una traccia che si perde e si ritrova più volte, ci sono poi da attraversare due canaloni assai ripidi che vanno approcciati alla giusta altezza per non rischiare di trovarsi la strada sbarrata da dirupi o versanti troppo scoscesi.

Procedo senza una direzione precisa seguendo ora quella pista, ora quell’altra, in certi momenti battendone una mia nella neve farinosa; risalgo ripidi tratti di bosco, respiro sui brevi falsopiano che incontro e risalgo ancora, sino ad arrivare al primo canalone che attraverso facilmente seguendo una pista di cinghiale che sarà da quel momento il mio totem battipista.

Attraversato l’intaglio risalgo una crestina in direzione del sole ma il passaggio, ad un certo punto, è sbarrato da un intrico di Rosa canina e Crespino che attraverso a fatica bucandomi svariate volte ma insomma, poteva andar peggio. La neve si è rifatta più consistente, ora, non sono ancora uscito dal bosco ma la direzione è giusta, il mio amico inconsapevole mi guida sempre, con impronte e fatte fresche, l’ho sentito in lontananza, qualche istante fa, forse il suo era un verso di fastidio o chissà, ho comunque aspettato che si allontanasse fermandomi qualche minuto, non lo voglio infastidire, né voglio che affrettandosi si faccia male. Ne approfitto per godermi la bellezza ed il silenzio di questo bosco.

Riprendo il cammino blandamente, i sensi captano ogni fruscio, ogni cambio di colore, ogni odore.

Sono nei pressi del nuovo canalone, devo decidere ora il percorso da affrontare, mi si para innanzi una parete rocciosa di qualche decina di metri, so esserci un passaggio alla base che mi porterebbe in pochi minuti al cospetto del bordo del canale ma decido di risalire il bosco per aggirare il salto da sopra e questo perché risalendo il canalone dovrebbe essere più ampio ed i suoi versanti meno ripidi e poi ho notato che anche il mio involontario sherpa ha optato per quella via, proseguo.

Esco finalmente al sole dopo essermi inerpicato su neve ripida e scivolosa, innanzi a me si para un pino “bussola” decisamente proteso verso il sud, raggiuntolo innanzi a me lo spettacolo si fa maestoso, dal un albero di una ventina di metri poco più avanti si leva imponente una giovane aquila, per un attimo rimango attonito in muta osservazione ma subito tento di riprendere il bell’uccello, ma lo stupore e l’emozione fanno si che non tolga il tappo della macchinetta fotografica, peccato, nemmeno il tempo di rammaricarmi che dal medesimo albero ecco levarsene in volo una seconda, anche questa mi sfugge. Poco male, l’importante è l’incontro, non ho l’ossessione di immortalare ogni istante su digitale, mi basta la mia memoria analogica.

Da questo momento in poi inizia il calvario.

Proseguo verso il presunto bordo del canalone con qualche difficoltà seguendo sempre l’amico cinghiale, del quale però perdo presto le tracce, mi trovo ora su un versante molto esposto, non ci sono alberi ed il terreno è ripido e coperto di neve resa molle dal sole che ora batte assai ed il rischio è vieppiù aumentato dall’assenza di fondo che rende la neve una potenziale saponetta appoggiata precariamente su ciuffi d’erba schiacciata sotto il suo peso, non una situazione auspicabile, una scivolata mi porterebbe velocemente oltre il bordo del versante a dover affrontare una caduta di diverse decine di metri su rocce aguzze, con conseguenze facilmente immaginabili. Proseguo con circospezione sino al bordo del canale in un punto inaffrontabile a causa delle pareti dello stesso impossibili da discendere in quel punto, poiché sostanzialmente verticali; più in alto di una cinquantina di metri pare si riesca a passare su un intaglio di roccia attraversante un salto, ma la presenza di ghiaccio in discioglimento e neve marcia non rendono l’opzione praticabile, il passaggio è largo appena una trentina di cm e mi esporrebbe ad un potenziale volo di 20 metri all’interno del canalone, in passato ho attraversato tranquillamente il tratto, ma queste condizioni lo rendono troppo pericoloso, decido quindi di risalire ancora, so esserci un passaggio più sicuro anche se non ricordo bene dove, lo troverò, che sia lui o un altro.

Il problema ora è risalire limitando i rischi l’erta nevosa, procedo lentamente misurando ogni passo ed infiggendo a dovere il fedele bastone nella neve e nel terreno sottostante, fortunatamente non ghiacciato, uno scarpone scivola ma gli altri punti di appoggio sono ben saldi, sono tranquillo ma sento un minimo di tensione nervosa, come se non bastasse ora mi trovo innanzi ad uno scivolo di roccia inaggirabile, lo devo risalire cercando buoni appigli nei punti dove il sole ha asciutto la pietra, che qui ha un buon grip ma è sapone anche solo un po’ umida. Il bastone mi intralcia, lo lego quindi ad un pezzo di cordino e lo trascino su con me, con il rischio però che si impigli durante la salita, bloccandomi, non vorrei dover disarrampicare, non succede, meglio.

Il tratto di pseudoarrampicata è breve, ma psicologicamente è stato intenso, rimango comunque tranquillo ma vorrei ricavarmi qualche istante di relax, non posso però fermarmi, il cielo si sta chiudendo, ora è nuvoloso, ci mancherebbero solo la pioggia o altra neve. Individuo macchie di rovi poco più in alto, decido di raggiungerle e di risalire poi sulla loro perpendicolare in modo da avere una rete di sicurezza fisica in caso di scivolata e psicologica durante la risalita. Il piano funziona e mi diverto anche.

Individuo un passaggio nel canalone, non è quello che conoscevo ma non importa, con qualche acrobazia riesco a guadagnare il versante est del canale e ad uscirne indenne. Sta imbrunendo e le condizioni di questo lato non sono migliori di quelle affrontate in precedenza, la neve è molto molle e penso che forse potrei aspettare qualche ora in bivacco nell’attesa che la neve si indurisca con il calare di sole e temperature, il necessario per scongiurare ipotermia e quant’altro lo ho, e ho pure del cibo, ma proseguirò finché mi sento sicuro, mi dico.

Raggiungo un bosco ripido in una zona mai battuta, deciso di provare a perdere quota dopo aver individuato un punto di riferimento all’orizzonte che mi aiuta nell’orientarmi ma le operazioni sono meno semplici del previsto, più e più volte devo tornare sui miei passi, respinto da muri di rovi o salti rocciosi, mi innervosisco un poco ma so che quando si affrontano queste esplorazioni il gioco dell’elastico è la norma e non l’eccezione, la prendo con filosofia decidendo di godermi il bell’ambiente nel quale sono immerso quando finalmente individuo una pista che pare comoda, è un cervo, non dovrebbero esserci problemi, scende, scende, per poi risalire repentinamente a causa dell’ennesimo salto, anche lui o lei era evidentemente nelle mie condizioni; ora la luce è poca, ho la frontale e la pila nello zaino ma procedo sfruttando l’adattamento della vista alla diminuzione della luce e comunque la rifrazione della neve mi da una mano. Vedo l’altra silvo-pastorale del paese giù in basso, quella dell’ultima borgata, son passate oramai 6 ore da quando ho imboccato l’altra e nel mezzo ho incontrato animali, paesaggi fiabeschi, pensieri ed emozioni, ma ora bramo solo il meritato riposo, la strada è la ma so che raggiungerla sarà arduo a causa dei salti di roccia innumerevoli che so essere in zona. Continuo per quasi un’oretta il calvario di sali, scendi ma oramai so di essere fuori dai pericoli più incombenti e, dopo qualche imprecazione ed un paio di scivolate indolore, guadagno finalmente prima la strada e poi l’uscio di casa, felice e non particolarmente stanco o spompato, la nuova dieta da ingordo sta effettivamente dando dei buoni risultati. Accendo la stufa, mi tolgo finalmente gli scarponi, l’acqua della tisana sobbolle già.

Panorami, in basso si vede il mio paese.

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2 risposte a Racconti di uscite: Ma chi me lo fa fare?

  1. Puck dei Boschi scrive:

    Cioè?

  2. Simone scrive:

    Marco ciao,
    ho letto che per delle foto lamentavi una difficoltà nella focheggiatura.
    Mi viene in mente un espediente predigitale, quando ancora sugli obbiettivi avevi la distanza a cui stavi mettendo a fuoco e l’esposimetro della macchina poteva non funzionare.
    Tempo da impostare. In giornate come quella del video (cielo azzurro, buona luce e neve) fossero senza neve il tempo sarebbe la frazione della sensibilità che hai in macchina (Es. 400Iso T 1/400s) se chiudi il diaframma a f:11, ma con paesaggi innevati puoi decidere se chiudere ulteriormente ed avere più profondità di campo (f:16), o utilizzare tempi più rapidi nel caso tu volessi riprendere animali in movimento o uccelli che spiccano il volo (1/800 – 1/1600).
    La chiusura a f:11, da distanze superiori a 10mt dal soggetto, ti garantisce una distanza di messa a fuoco buona prima e dopo il punto fuocheggiato approssimativamente di 5mt (1/3)prima e 10(2/3) dopo il soggetto, utilizzando una focale da 60/100mm.
    Più allunghi la focale, più ridotta sarà la profondità di campo risultante (area nitida).
    Avendo una zona di messa a fuoco nitida e non un punto puoi regolare la tua macchina già ad una distanza nota, prima di affrontare un percorso, sapendo cosa sarà nell’area di messa fuoco. Puoi essere meno preciso e più rapido così facendo non perdendo la fotografia.

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