«Così come nelle scienze della natura ogni questione è subordinata al compito di comprendere la totalità della natura, ogni progresso della tecnologia è al servizio dello scopo generale: accrescere la capacità dell’umanità di trasformare la natura. Il valore di questo scopo è altrettanto poco contestabile del valore della conoscenza della natura per la scienza. I due scopi confluiscono nella formula ormai banale, senza cui non ci sarebbe progresso della scienza: il sapere è potere»
Così parlava Werner Heisenberg, premio Nobel, un padre fondatore della fisica atomica, nonché scienziato al servizio del nazismo. Non esiste più un progresso scientifico, tecnologico, al di fuori dei laboratori del potere. La scienza non è al servizio dell’Umanità, del Sapere, della Felicità. È al servizio del dominio. Il suo scopo è quello di rafforzarlo, potenziarlo, proteggerlo, espanderlo. Nient’altro. Ciò spiega la difficoltà in cui ci si imbatte ogni qualvolta si intenda contrastare un progetto istituzionale di carattere scientifico. Che dire quando l’interrogativo che viene posto è già falsato in partenza?
Prendiamo la questione dell’Alta Velocità, ad esempio. Ancora di recente non è mancato chi ha tirato le orecchie ad entrambe le parti – fautori e nemici dei treni super veloci – ricordando loro l’inanità delle rispettive retoriche, una basata sulla necessità del Progresso e l’altra sulla difesa della Natura. L’invito loro rivolto è quello di attenersi alla «realtà delle cose» ed a null’altro. E quale sarebbe questa «realtà delle cose» se non una «migliore circolazione delle merci»?
Ecco il punto. Quando questo ordine sociale viene considerato la premessa naturale per ogni ulteriore considerazione, va da sé che qualsiasi riflessione non possa uscire dalla ragione di Stato. Ogni pensiero che non voglia irreggimentarsi viene messo al bando, decretato impresentabile, al punto da renderlo perfino inimmaginabile. Eppure, non dovrebbe essere così difficile comprendere che l’essere umano ha certamente bisogno di nutrirsi o di ripararsi, ma ciò non comporta lavorare in cambio di un salario che permetta di pagare un affitto e di acquistare merci in un supermercato. L’inevitabile ed umana esigenza di dissetarsi non è un inevitabile ed umano bisogno di bevande gassate.
Pensiamo alla questione energetica. Che si parli di energia idrica, o a carbone, o nucleare, o eolica, o a gas… sta di fatto che la storia dell’energia è legata a quella del lavoro. L’energia dei muscoli non è più sufficiente come forza motrice, non ci sono più solo attrezzi rudimentali da trainare. Ed essendo questa società fondata sul lavoro, ha bisogno di una forza motrice per far andare avanti il suo apparato meccanico e tecnologico. Nella testa delle persone l’energia è ciò che consente di riscaldare la casa, far funzionare il frigorifero o accendere la televisione. Un problema pratico, semplice ed immediato. In questo buon senso grossolano l’energia sta alla base di ogni benessere, e l’assenza di energia non può che far ricadere la civiltà nella barbarie. Ma dovrebbe essere abbastanza ovvio che non si costruiscono centrali atomiche per permettere alla gente di leggere saggi di filosofia dopo il calar delle tenebre. La questione energetica è anzitutto una questione industriale, oltre che militare. La sua ricaduta “civile” e “domestica” è un fatto del tutto secondario e meno rilevante.
L’accumulazione di fonti energetiche corrisponde quindi solo all’accumulazione di capitale. Non è l’antico focolare a dover essere riscaldato, bensì la più recente fornace, che oggi può assumere la forma terrificante della fusione atomica. Accumulare potenza al fine di convertirla in lavoro. E le conseguenze di tale corsa verso la potenza sono ben note: devastazione e sterilizzazione della natura, ridotta ad essere una riserva di combustibili da sfruttare e una discarica da riempire di veleni senza che si possa nemmeno immaginare una maniera per ricostituire ciò che è stato dilapidato. È il dilemma della termodinamica: la sua irreversibilità. Lo sfruttamento delle fonti energetiche vampirizza la vitalità della natura, sia in termini quantitativi che qualitativi.
Ecco dove nascono quelle «crisi energetiche» che vengono periodicamente denunciate. Dai limiti stessi della natura, le cui risorse sono ormai quasi del tutto esaurite, che sono da ostacolo allo sfrenato sviluppo dell’accumulazione. Tale difficoltà viene superata sempre in maniera momentanea, attraverso una innovazione in campo energetico in grado di valorizzare fonti fino a quel momento poco o per nulla usate.
Cosa significa tutto ciò? Che oggi è impossibile criticare l’uso di una fonte energetica senza rimettere in discussione l’intera civiltà. L’ambientalismo, questo riformismo fondato su un’indignazione che vorrebbe dare consigli verdi al potere, è una pura menzogna. Chi vuole le pale eoliche al posto del carbone, ad esempio, chi domanda allo Stato di economizzare sull’energia e favorire l’uso di «energie dolci», continua ad illudersi sulla naturalità del suo padrone. Pensa ancora che per togliersi la sete occorra bere una bevanda gassata, meglio se fatta con maggior cura, con elementi meno nocivi, magari casalinghi. Non si capisce che l’energia appartiene al capitale e ne segue la stessa legge, quella dell’accumulazione.
Al di là dei tentativi di rendersi autonomi dal monopolio istituzionale, al di là della riappropriazione di tecniche elementari che permettano di ridurre o evitarne l’uso, resta il fatto che non la nocività di una fonte energetica andrebbe messa in discussione, bensì un modo di vivere che pretende un tale consumo di energia, ovvero questo intero ordine sociale fondato sulla sottomissione degli esseri umani agli imperativi del capitale e al potere dello Stato.
[2/1/15]