Il caldo di questi giorni non risparmia nemmeno l’alpe e la due giorni che si affaccia all’orizzonte rischia d’essere un calvario, a meno di non andare in cerca di un torrente che offra ristoro, ci incamminiamo quindi verso un luogo per me familiare e denso di ricordi e per quest’ultimo motivo, visto il periodo, forse un’arma a doppio taglio, ma il richiamo di un possibile bagno ristoratore dopo le attività di bosco è un canto di sirena troppo forte da contrastare.
Ci incamminiamo.
Muoviamo passo lungo un vecchio sentiero oramai poco battuto se non dagli animali non umani, il sole batte ma le fronde degli alberi ci offrono un ottimo riparo ed il caldo risulta così essere meno aggressivo del previsto.
Il cammino è come lo ricordavo e come l’ho raccontato già altre volte, ma ogni passaggio è sempre un po’ differente, e non per le numerose frane di piccole o medie dimensioni che hanno attraversato il sentiero, ma perché negli anni tutto muta ed il selvatico non fa certo eccezione, il bosco è vivo e si muove, si modifica, muore e nasce, d’altro canto anche io sono differente dalla prima volta che ho calcato questi stessi passi, siano gli anni e le esperienze trascorse, gli infortunii più o meno gravi, piuttosto che un’evoluzione personale che mi porta ad essere distante, almeno in parte da ciò che sono stato, anche questa volta passare per questi boschi in un certo senso aviti -io in questo caso sono l’avo di me stesso- ha un noto sapore di prima volta, anche se meno piacevole e più ombrosa delle altre prime volte, ma non divaghiamo troppo.
Le frane, come dicevo poco sopra, sono il fil rouge di tutta la prima parte di sentiero e se io sono abituato a scavalcare massi, sassi e calpestare pietraie instabili, L, il mio compagno di giornata, è meno pratico ed un po’ incerto, ma se la cava comunque piuttosto bene.
I buchi di vegetazione lasciano trasparire strali di sole che ci colpiscono come colpi di frombola, secchi e stordenti, anelo già l’acqua ristoratrice del torrente, sperando sempre che ce ne sia.
Siamo scesi abbastanza da cominciare ad addentrarci nel bosco più fitto e fresco, sono riuscito ad attraversare la parte superiore del sentiero senza gettare alcuno sguardo al cantiere del Tav, che in basso continua a violentare questo bosco, ciò non vuol dire che non ci abbia pensato ad ogni passo, con rabbia.
Il bosco cambia, dicevo, ed in questo caso ancora più palesemente: solitamente qui, in questo periodo dell’anno, si dovrebbero ancora trovare molte piante d’aglio osino moribonde ma con un po’ di fortuna ancora con qualcosa di raccoglibile -e ci contavo- ma invece quest’anno, questo maledetto anno (di non ritorno?) nulla, nemmeno una pianta, come se non ci fossero mai state, d’altra parte il sottobosco è decisamente meno umido del solito e dove il sole insiste, questo sole violentemente inedito, tutto è bruciato…
In lontananza si comincia a sentire il rumore del fiume, il corpo si prepara già ad accogliere la frescura delle limpide e fresche acque torrentizie.
Il bosco cambia per sua natura, ma anche per mano umana, il ponte sul torrente è svanito e per attraversare sfruttiamo un’asse di legno, proveniente da chissà dove, e due tronchi d’albero che qualcuno a sistemato a guisa di grossolano camminamento ma insomma, il loro scopo lo assolvono egregiamente.
Ci sono molte piante a terra, forse a memento del forte vento che qualche mese fa ha fatto molti danni in tutta la valle. In pochi minuti siamo infine alla radura dove allestiremo il campo.
Posto strano questo, fra i noccioli ed i castagni, le acacie, i pioppi bianchi ed i frassini che dominano questa parte di bosco, si ergono sperduti e tanto spaesati quanto ostinati -mi ci rivedo?- Un Tiglio di discrete dimensioni ed un Faggio, che già in passato è stato punto d’ancoraggio per la mia amaca e lo sarà anche questa volta, o forse no…infatti noto con disappunto come il vento non abbia risparmiato nemmeno il mio vecchio amico, forse anche a causa dei parassiti che stanno rodendo il suo bel tronco una delle brache superiori della pianta che diparte a circa 4 metri dal suolo e corre verso il cielo per almeno altri 5 o 6 metri, si è spezzata irreparabilmente è si è adagiata pericolosamente sulle chiome degli alberi innanzi, rimanendo attaccata al corpo principale solo per una sottile lingua di sfasciume secco e attraversando a mò di trave di colmo tutta l’area che avevo pensato per l’allestimento del bivacco.
Non mi rassegno, non c’è nulla d’irreparabile, ho con me la corda da escursione, qualche moschettone e dei cordini, materiale sufficiente per realizzare un imbrago d’emergenza ed allestire una linea di salita su corda che mi porterà sino al punto di rottura della branca.
Scalo i primi metri dell’albero facilmente e trovata una posizione d’equilibrio con una discreta tribolazione riesco a passare la corda in alto, attorno alla forcella della branca da abbattere.
Realizzo due nodi bachmann, uno in vita ed uno per il pedale di risalita, in un attimo sono al punto di rottura, provo a spingere con il piede la branca ma è troppo ben incastrata sulle chiome degli altri alberi per muoverla, devo procedere al taglio in una posizione scomoda, a 4 metri da terra, il tronco è circa 17/20 cm e ho da scegliere fra sega ed accetta da utilizzare in una posizione alquanto precaria.
Comincio con l’accetta, non procedo affatto male nonostante possa utilizzarla solo ad una mano, l’altra serve a tenermi in posizione di sicurezza afferrandomi alla branca gemella e sana, avessi potuto afferrare l’attrezzo a due mani avrei accelerato i tempi, ma come si sa nel bosco ci vuole il tempo che ci vuole per fare ogni cosa, figurarsi per un abbattimento aereo.
Taglio e taglio, dopo la metà mi pare di procedere molto lentamente, provo ad usare anche la sega ma la posizione rende disagevole il movimento, continuo quindi con la mia fida accetta. Sono a ¾ del lavoro e comincio ad menare i fendenti in modo tale da direzionare l’angolo di caduta della pianta in modo che non invada l’area bivacco e contestualmente sistemo, con l’aiuto di L che mi coadiuva da terra, le corde in maniera tale che non rischino di rimanere agganciate al tronco in caduta, non sarebbe carino farsi sbattere a terra così.
Ci siamo, l’albero flette sotto il suo peso, spingo appena con il piede e la branca cade schioccando proprio dove volevo, oltretutto, ed è motivo d’orgoglio, il moncone sulla pianta ha un taglio bello preciso e pulito, sembra quasi effettuato a sega, non male viste le condizioni di lavoro, io e la mia accetta lavoriamo bene assieme.
É la mia prima potatura aerea e sono innegabilmente soddisfatto.
Spero che l’albero abbia gradito la mia opera da dentista fuori scala.
Mi ricalo e recupero il materiale, è l’ora di allestire il campo. Il sudore mi riga la schiena, l’acqua del fiume sussurra dolcemente.
Bivaccheremo entrambi in amaca, abbiamo il medesimo tarp, decido quindi di creare una sorta di capanna abbastanza alta da starci in piedi; non ho mai utilizzato due tarp così, ma l’improvvisazione è soddisfacente ed abbiamo così una buona area abitabile; una volta appese le amache però manca qualcosa, l’horror vaqui mi assale e decido di realizzare un semplice tavolo per riporre…cose.
Tavolo semplice: 4 zampe piantate a terra con terminale a forcella, due pali sul alto lungo dove creare un piano di legnetti sottili, due traverse di supporto sui lati corti ed una obliqua che attraversa la struttura, il tutto consolidato con semplici legature. Abemus tavolo.
Tocca al focolare: ripuliamo dalle foglie un’’area piana non distante dell’amaca resort e creiamo la nostra struttura circolare in pietra sormontata per ¼ da una piccola “losa” che sarà il nostro fornello in una conformazione già rodata negli anni.
Anelo un bagno ma c’è ancora da fare, dobbiamo procurarci dell’acqua. Il fiume è a poche decine di metri, solitamente procedo per bollitura o realizzando un filtro con il carbone ma L ha con sé un comodo filtro a pompa e non nego la voluttà del poter ricavare velocemente dell’acqua potabile. Speravo la portasse e per questo ho con me una tanichetta a soffietto da 5L. In meno di mezz’ora riempiamo 2 borracce da litro e la tanica, finalmente è ora, prima di cena un bel bagno non me lo toglie nessuno.
Poco distante scoviamo una pozzetta lungo il fiume che ci permette di immergerci, mi spoglio ed entro nell’acqua, il fresco morde i polpacci, mi immergo velocemente fino al collo ed altrettanto velocemente riemergo, il primo impatto è il più traumatico, ci si abitua poi facilmente.
Il cielo è ancora azzurro, seppur pallido, d’estate non imbrunisce mai, che diavolo! L ha dimenticato le posate, realizzo quindi al volo una rudimentale forchetta ed un ancor più rudimentale cucchiaio aiutandomi con il mio piccolo multiuso da intaglio.
Raccogliamo la legna necessitante per la cena e ci mettiamo in cerca d’esche, recuperiamo erba secca e sottocorteccia di pioppo non delle migliori, ma dovrebbe bastare, dovrebbe, perché in realtà dopo prove ripetute e decine di colpi di ferrocerio sia di L che miei, il fuoco non prende, da anni non tribolavo così e mai con il caldo ed il secco come in questi giorni.
Insisto ma niente, la memoria mi riporta ad una serata in mezzo alla neve, dove umidità e legna bagnata quasi mi sconfissero, ma quasi appunto, e l’ambiente era ostile, qui invece…ma nulla. Alla lunga e utilizzando -mea culpa- un sacchetto di carta che avevo nello zaino, accendiamo il focolare. Il petto gonfio per il buon lavoro di taglio in pianta s’è sgonfiato come un palloncino che incontra una rosa, il selvatico non ammette compiacimenti.
La cena consiste in fregola condita con legumi vari, ci voleva.
Sazi e satolli d’acqua ci avviamo verso le amache, L non ha portato né coperte né saccoletto, io son perplesso e gli offro, in caso di necessità, il mio poncho -meglio di nulla- ed un maglione che ho con me per ogni evenienza.
Il sonno tarda ad arrivare, il rumore del fiume concilia da un lato ed agita dall’altro, oltretutto il bosco è ineditamente silenzioso, non si sentono uccelli notturni, nessuna volpe, nessun rumore di passaggio: questa strana condizione ha allertato i miei sensi e il sonno è di là da venire. Verso le undici un lieve calpestio segnala il passaggio verso il fiume di qualche abitante del bosco.
Mi concentro sull’acqua che scorre scacciando alcuni pensieri legati al luogo, le tecniche di respirazione mi rilassano e mi accompagnano al sonno.
Nella notte L mi chiama chiedendomi poncho e maglione, come immaginavo il fresco -che in amaca arriva da ogni direzione- ha sortito il suo effetto. Manca poco alle 3, dormivo così bene…fortunatamente mi riaddormento quasi subito.
La notte passa tranquilla, quando mi sveglio l’orologio segna le otto e tre minuti, poco dopo si desta anche L.
Accendo il fuoco e mentre L si reca al fiume a prendere un meloncino che avevamo messo in ammollo al fresco la sera precedente, io impasto un paio di chapati utilizzando dell’ottima farina di grano duro Saragolla, gentile dono di un’amica di ritorno dalla Puglia, un pizzico di sale ed acqua. Faccio riposare il minimo indispensabile e stendo direttamente la prima pallina nel padellino, pochi minuti ed il primo chapatino è pronto, tocca al secondo.
La colazione è stata ottima e corroborante ma con stupore apprendo che L vuole smontare, come sua terza nottata in amaca è stata soddisfacente ma vuole riavviarsi verso il paese dove abbiamo parcheggiato. Sarei rimasto volentieri a farmi un bel giro ed a dargli qualche altra dritta sulla permanenza in ambiente ma non insisto, mi rendo conto che i primi campi allestiti e le prime notti boschive possono stancare, sarà per una prossima volta e spero nel mio intimo che l’esperienza, seppur breve, sia stata piacevole e soprattutto istruttiva.
Smontiamo velocemente e ripristiniamo l’area, soprattutto quella del fuoco, è importante non lasciare traccia del proprio passaggio, sia per rispetto del bosco e dei suoi abitanti, sia per chi si trovasse a passare e magari a volersi fermare in questi luoghi.
Procediamo spediti, la salita non è impegnativa anche se il caldo la inasprisce un pochino; questa volta cedo però al cuore e dall’alto sbinocolo verso il cantiere dell’alta velocità, mi rattristo un po’ pensando agli alberi che non ci sono più, al cemento che copre la terra, al buco che ferisce il monte e che sta asciugando le falde acquifere che ha intercettato. É il progresso, dicono, a me sembra solo l’ennesimo gesto folle di un’umanità che in nome di questa costruzione mentale sta artificializzando ogni ambito del vivente depredando ogni minima risorsa del pianeta che sta inesorabilmente morendo sotto i colpi dell’ “animale più evoluto”.
Basta pensare. Camminare.
Siamo velocemente in paese, il lavatoio è tappa obbligata e ci disseta e lava via il nostro sudore, almeno dalla faccia.
Prima di salutarci c’è ancora tempo per un abbondante Aglio ed Olio a casa mia. Mapu, il gatto che abita con me, fa il ruffiano con L. Sazi ci salutiamo. A breve ripartirò, sempre in giro qui sulle Alpi, un senso di routine, però, inquieta.