Racconti d’uscite: fra caldo e ginestre

La giornata era cominciata presto con un viaggio in macchina dal sapore d’epopea, fra traffico e caldo; giungiamo a destinazione con tre ore di ritardo sulle tempistiche stimate ma in tempo per appendere l’amaca nell’area destinata alle tende e ristorarsi un minimo in attesa del primo dibattito previsto per il pomeriggio oltre che per familiarizzare con le temperature infernali.

Non sono propriamente un animale sociale ma ho deciso di partecipare perché il secondo dibattito di giornata avrebbe affrontato un tema che mi sarebbe interessato e per questo ho deciso, in compagnia, di affrontare il lungo viaggio e la presenza di un certo quantitativo d’altri ominidi.

Il luogo è stimolante ed i partecipanti, fra i quali incontro qualche sodale che non vedevo da tempo, sono piacevoli ma io sono in un periodo non troppo socializzante e durante il primo incontro mi sposto quindi a riposare nella mia cara amaca ma non basta, non ho proprio voglia di stare in ampio consesso e guardandomi intorno -il luogo è molto vicino a dei boschi- accarezzo con sempre più insistenza l’idea di andarmi a ritirare fra gli alberi.

Smonto quindi l’amaca e, in maniera non troppo elegante, salutando solo chi vado incrociando, -niente dibattito quindi, peccato ma non poteva evidentemente essere altrimenti- abbandono il luogo alla volta di una collinetta che si vede poco distante; la zona circostante è fortemente coltivata ma qua e là si intravedono macchie di boscaglia e proprio sul piccolo mucchietto di terra paiono esserci abbastanza alberi da concedere ombra e punti d’ancoraggio per l’amaca, ma non tutto è come sembra o meglio, non ho fatto i conti con le caratteristiche di flora ed ambientali del luogo ove mi muovo: pianura del centro/nord Italia, calda, molto calda…

Trovato un punto d’accesso alla collinetta mi dipano in un prato da fieno appena tagliato, aggiro delle rotoballe e comincio a salire costeggiando una serie di acacie e qualche nocciolo; la salita è più ripida di quello che sembrava da lontano o forse il fatto di muovermi su un erta completamente esposta al sole con il termometro oltre i 35 gradi all’ombra così la fa sembrare, fatto sta che verso ¾ di salita sudo copiosamente e devo fermarmi a respirare, i muscoli lo richiedono, hanno fame d’aria, il cuore pare volermi precedere e preme per uscire dal petto.

Finalmente entro nella boscaglia, le acacie hanno lasciato spazio a delle giovani querce e non nego il sollievo di non dovermi muovere fra tronchi e rami pieni di spine, anche perché una volta mossi i primi passi fra gli alberi il sottobosco di pianura, che da anni avevo praticamente dimenticato, mi ricorda quanto muoversi fra un intrico di ginestre sia faticoso: avanzo a stento in questa mastodontica rete verde che pare non avere soluzione di continuità, mi rallegra solo il constatare che i rovi, pur presenti, non sono poi molti, in compenso non mancano i ginepri.

Procedo districando rami e rametti ad ogni passo, i ginepri paiono essere attirati morbosamente dalle mie natiche, mi bucano solo li, il caldo asfissiante fa si che rivoli di sudore mi ottenebrino la vista riempiendomi vieppiù gli occhi, devo tergermeli, così come la fronte, quasi ad ogni passo. L’ora corre ed il tramonto si approssima e con crescente ansia noto come non esista praticamente un metro quadro libero da ginestre dove poter allestire il mio campo per la notte.

Avanzo ed avanzo fra saliscendi a tratti molto ripidi, cerco di seguire per quanto possibile le piste segnate dai selvatici sperando di riuscire a procedere più speditamente ed in effetti l’idea risulta essere abbastanza sensata, peccato che gli alberi siano sempre affogati fra ginestre alte almeno un metro e quelle poche radure incontrate ne sono parche, comincia a sembrarmi uno scherzo pianificato a tavolino.

Trovo una pista che mi da buone sensazioni, ad un tratto scende ripidissima e la seguo, sembra forse esserci il posto giusto per…niente…proprio per niente. La pista muore innanzi ad un piccolo salto di almeno 4 o 5 metri, la traccia la costeggia per poi risalire un poco e morire contro un muro di immancabile ginestra: verosimilmente la pista è abbandonata da tempo, forse una parte della collinetta e smottata rendendola sostanzialmente senza sfondo.

Risalgo annaspando e pensando che con me ho solo un litro d’acqua che mi deve bastare per la serata e la notte; quella che in discesa sembrava un tuffo da ottovolante in salita pare quasi un’arrampicata su terreno farinoso e sdrucciolevole, risalgo avvolto in un guscio di sudore salato, polvere e foglie di quercia secche.

Quasi tornato al punto di abbrivio della discesa individuo una pista alternativa e decido di seguirla e finalmente, con il cielo che comincia a rosseggiare la fortuna mi sorride: arrivo in una radura esposta ad ovest, ci sono due alberi perfetti per l’amaca e ci sono solo un paio di ginestre ad ingombro che a questo punto, seppur a malincuore devo tagliare per ricavarmi un minimo di spazio vitale.

Velocemente sistemo amaca e tarp, mi tolgo la camicia che appendo ad asciugare, urino -un’urina gialla e puzzolente, segno di scarsa idratazione- intorno all’area ed attacco lo zaino ad uno degli alberi, la sete chiama e mentre sprofondo nel saccoletto sorseggio con parsimonia il prezioso liquido contenuto nella borraccia, di cenare non se ne parla.

La stanchezza ostacola il sonno, certe volte capita, cerco quindi di lasciar correre la testa

libera sperando che si indirizzi sul sentiero che conduce alle porte di Morfeo. Le palpebre finalmente si fanno di piombo ed i pensieri cominciano a dissolversi quando tutt’attorno comincio a sentir calpestii e rumori i più varii. In principio faccio finta di nulla ma poi la testa vola alla nottata passata fra i cinghiali precisamente un anno prima (pare che stia diventando consuetudine, non studiata, di passare il giorno del mio compleanno in amaca in mezzo ai selvatici) e quindi decido di capire con chi dividerò la “camera” questa notte accendendo la torcia: tutt’attorno il nulla, i rumori sono cessati con la luce ma appena spengo il lume è nuovamente un ballo sconsiderato, accendo dunque nuovamente e nuovamente niente. Al terzo tentativo dirigo istintivamente il fascio di luce a terra e finalmente ecco i miei ospiti, sono simpatici ed un po’ goffi istrici! Ora che so con chi ho a che fare posso finalmente rilassarmi e sonnecchiare.

La mattina mi sveglio con la testa pesante, bevo e mi metto in cerca di qualche legnetto secco per alimentare la bushbox e qualche bacca di Ginepro che metto poi in infusione. La bevanda mi corrobora, il sapore resinoso delle bacche è piacevolissimo e mi aiuta a svegliarmi, un po’ di vitamina C non guasta.

Blandamente smonto il campo e sistemo tutto con cura nel fido Savottone, quanto amo questo zaino! Con casuale precisione mentre chiudo le coulisse dello scomparto principale il mio passaggio mi telefona, fissiamo quindi un randez-vous non distante.

Riprendendo la via in direzione sud/ovest mi accorgo che lo spiazzo dove ho dormito era davvero vicino a quello che era stato il mio punto d’accesso al boschetto, capita quando si naviga a vista, ma non nego il piacere di essere uscito da dove ero entrato, segno che nonostante in questi ultimi tempi abbia diradato le mie peregrinazioni selvatiche le capacità di navigazione naturale siano rimaste più che buone.

Discendo velocemente la collinetta, pur essendo poco più che le 7 di mattina il sole batte già violento. Inseguo ogni chiazza d’ombra, sono infine sulla strada, vedo giungere in lontananza un veicolo familiare. Come sempre non conta il dove, ma il come.

Questa voce è stata pubblicata in Escursioni, Montagna e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *