Esplorazione: sulle tracce di un Menir, prima parte?

La neve è andata da qualche settimana, le primule hanno cominciato a puntinare i boschi, così come le piccole violette, il selvatico risuona nuovamente argentino dopo l’ovatta dell’inverno e con i primi fiori escono dal letargo anche i progetti che per tutto l’inverno si sono coricati quieti in un angolino della testa.

La mattinata comincia con poca voglia di uscire, c’è un po di vento ed il cielo è grigio, non invoglia proprio a mettersi in marcia ma la temperatura è mite e poi mi ero ripromesso di tornare per il secondo giro d’esplorazione in una zona abbastanza vicina a casa dove si trova, o dovrebbe trovarsi, un piccolo menir inciso; la prima visita svolta nell’area pochi giorni fa non ha dato risultati se non quello di aggiungere alla mia collezione di teschi quello di un povero camoscio, oggi però ho notizie più precise sull’ubicazione, la pietra non è censita e per richiesta di chi mi ha indirizzato sulle sue tracce non darò indicazioni sula zona, spiacente.

Parto due volte o meglio parto, torno a casa perché dimentico di qualcosa che però si trova già nella mia tasca sinistra, mi riavvio, se queste sono le premesse…

Abbrivio una silvopastorale e trovo subito la prima fatta di lupo nei pressi del luogo dove qualche settimana fa, sulla neve, avevo trovato una sua pista, poche centinaia di metri e lascio la strada per un sentiero e le scorie delle due giornate di indisposizione da poco passate si fanno sentire, il percorso impenna subito, non il massimo per rompere il fiato, faccio fatica ma procedo; dopo il primo tratto ripido, dove il dislivello si fa meno violento, incontro la seconda fatta di lupo, ce ne saranno poi una terza ed una quarta oltre varii ciuffi di pelo di qualche preda sfortunata.

Salgo e salgo, il bosco ora comincia a farsi decisamente alpino e mi muovo fra rocce megalitiche e conifre,

è caldo, il vento prima di placarsi ha pulito il cielo ed ora il sole aggredisce, il sentiero è esposto a sud e sudo copiosamente, un buon modo per spurgare tossine, puzzo come uno stambecco…

Arrivo finalmente sulla scena dell’esplorazione, stando alle informazioni ricevuto non dovrebbe essere difficile trovare il menir ma dove dovrebbe trovarsi non c’è o non lo trovo io, mi muovo quindi avanti e indietro per 4 volte spostandomi parallelamente alla traccia indicata più in basso e più in alto con scarti di circa 5mt ma del menir nessuna traccia però, c’è spesso un però quando ci si muove in ambiente che in questo caso prende la forma di una paretina fessurata e ben ammanigliata di 6/8 metri, non dovrei ma come resistere? Mollo lo zaino ai piedi della parete e salgo, qualcosa avrei dovuto pur regalarmi in questa giornata, o no? La salita è piacevole ed agevole, peccato sia solo così corta, la discesa è affidata ad una provvidenziale pista di camosci.

Recuperati zaino e bastone esploro un tratto di bosco più a valle dove mi sembra di intravedere una porzione di cerchio litico, quasi un Cromlech, ma una volta avvicinato mi rendo conto che in realtà si tratta solo di una tratta d’un vecchio muro di contenimento a secco, però la zona ha un’energia particolare, mi aggiro fra rocce giganti e muschio, l’area è davvero evocativa, poi risalendo verso il sentiero incontro quello che ho soprannominato “il bosco degli alberi ostinati” dove vento e smottamenti hanno creato forme davvero inconsuete fra alberi abbracciati ed altri che, pur caduti, non si sono rassegnati ala sorte loro ascritta dagli elementi, lezione da imparare.

Alberi che si abbracciano sfidando i venti

Alberi abbracciati ed altri nati dalla cocciutaggine del loro antenato che non si è rassegnato al destino impostogli dalla caduta

…Forza di volontà…

Comincio a rientrare, procedo spedito sul sentiero controllato in alto da un piccolo gruppo di femmine di camoscio, in breve tempo sono sulla traccia che scende verso una borgata abbandonata, cammino deciso ma i sensi acuiti dalla permanenza in ambiente attirano la mia attenzione su un roccione dalla superficie piana situato qualche decina di metri sotto il livello del sentiero, una traccia flebile di animali su una irta pietraia mi spinge a provare a raggiungere il sasso, con circospezione mi muovo sulle rocce sdrucciolevoli ausiliato dai bastoni che in discesa sono diventati due ed in pochi minuti mi trovo sulla roccia, una sorta di piattaforma ampia circa 6 x 6mt in parte aggettante nel vuoto, il sole che mi accarezza e la presenza di alcuni ginepri secchi mi convincono ad allestire un piccolo focolare per cucinare del riso; delle pietre piane fanno al caso mio e costruisco una sorta di piccolo fornello, in tasca ho alcune esche -corteccia di betulla e una sottocorteccia di acacia ben secca- raccolte durante la camminata, pochi colpi di ferrocerio ed il riso è a cuocere.

Relax…

Il lato a sud/ovest della roccia aggetta nel vuoto, mi porto sul margine ad ammirare il paesaggio, una leggera brezza tiepida mi accarezza.

Torno a controllare la cottura del riso, ho acceso il mio fuoco nei pressi di una comoda spalliera naturale della roccia, mi sdraio ad attendere che il pasto sia pronto, quasi mi appisolo ma ecco che vengo svegliato di soprassalto da una visita imprevista, un’aquila vira a meno di 20 metri da me, proprio alla mia altezza, le piume scintillano al sole, tento di fotografarla mentre lei, dopo due volute, scompare contro-sole, la foto che ho provato a scattare è psichedelica, ma dell’aquila non c’è traccia.

Psichedelia alpina

Bon apetit! Il riso ed il nuovo cucchiaio in ciliegio “cotto”

Dopo essermi goduto cibo e panorama arriva l’ora di rientrare e di pianificare la nuova esplorazione sazio di suggestioni e panorami.

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